Per chi produrre, per l'artista o per il mercato?
- Marco Schnabl

- 23 ott
- Tempo di lettura: 5 min

Non tutti i cantanti sono artisti. E nel mondo della produzione musicale, questa differenza determina tutto.
C'è chi vede l'artista come un mezzo per arrivare a un prodotto finito. E chi invece lo riconosce come il fine stesso del processo creativo.
È una scelta di campo che cambia radicalmente il modo di lavorare in studio, il tipo di musica che nasce e il suo impatto su chi ascolta.
Ne parlo in questo articolo, spiegando perché mettere l'artista al centro non è idealismo, ma l'unico modo per creare musica che resta.
Il problema nascosto della produzione moderna
C'è chi canta per vocazione e chi per intrattenere.
La differenza si percepisce nell'urgenza espressiva, nella verità di quello che viene comunicato, nella sostanza di cosa rimane dopo l'ascolto.
Chi intrattiene non vive davvero ciò che canta.
È un esecutore, un mezzo per arrivare a un altro fine.
E quel fine, oggi più che mai, riguarda la vendita mainstream, i numeri, la viralità istantanea.
La musica viene prodotta pensando a ciò che piace agli algoritmi.
Brani costruiti per essere "tiktokizzati": ritornelli che entrano subito, strutture prevedibili, suoni omologati che seguono il trend del momento.
Il risultato? Tanta musica da intrattenimento che dura il tempo di una stagione.
Canzoni che scivolano via senza lasciare traccia, nemmeno in chi la ascolta.
È il mercato che detta le regole.
Ma quando l'artista diventa solo un veicolo per raggiungere obiettivi commerciali, quando la sua identità viene piegata alle esigenze di un algoritmo, stiamo perdendo qualcosa di fondamentale.
Stiamo perdendo l’arte della musica.
Cosa significa "l'artista è il fine"
Quando produco, ho sempre chiaro un principio: l'artista è il fine, mai il mezzo.
Questa scelta di campo cambia tutto.
L'artista diventa la creazione stessa.
Quella persona, con la sua storia, la sua sensibilità, il suo modo di interpretare il mondo, diventa insostituibile.
Da ingranaggio si trasforma nel protagonista di tutto il progetto.
Ciò che conta davvero nel processo creativo è esaltare la visione dell'artista.
Farlo credere in quello che ha dentro.
Aiutarlo a tirarlo fuori e condividerlo con il mondo.
Solo così può nascere musica vera, quella che tocca le persone nel profondo.
Perché l'artista deve riconoscersi in quella canzone.
Deve viverla in ogni nota, in ogni parola, in ogni scelta sonora.
Quando questo succede, la musica acquista una verità che si percepisce immediatamente.
E questo vale per tutto: dalla registrazione in studio fino al palco.
Sarà l'artista a portare quei brani dal vivo. Dovrà trasmettere l'emozione, la verità, l'urgenza di quelle canzoni.
Cantare qualcosa che è estraneo a noi stessi rende la performance vuota.
Il pubblico lo capisce subito: manca quella connessione autentica, quella scintilla che accende l'emozione.
Ma quando l'artista vive davvero quei brani, quando ogni canzone è espressione della sua identità, allora succede la magia.
La musica diventa viva. E quando la musica è viva, resta.
Ecco perché il mio approccio è diverso.
Produrre per l'artista, non per il mercato
Quando produco, il mercato non comanda.
So che può sembrare una provocazione, ma è una scelta precisa.
Il mio focus è su ciò che l'artista sente davvero e vuole condividere con il mondo.
Non sui possibili ascolti. Non sulle playlist. Non su quello che "funziona adesso".
Conta la ricchezza interiore dell'artista.
Il ruolo del produttore è fare in modo che tutto questo emerga.
Come? Attraverso l'ascolto profondo.
Non parlo solo di ascoltare le demo o le idee musicali.
Parlo di comprendere chi è quella persona, cosa la muove, qual è la sua urgenza espressiva.
Significa creare uno spazio dove l'artista può essere se stesso.
Dove non deve fingere o adattarsi a un format.
Dove può esplorare la propria identità sonora senza il peso delle aspettative del mercato.
Questo approccio richiede tempo e pazienza. Soprattutto, la capacità di dire no a compromessi che tradirebbero la visione dell'artista.
Ma quando metti l'artista al centro, quando ogni scelta produttiva nasce dal rispetto per la sua identità artistica, succede qualcosa di potente.
L'artista si riconosce nel proprio lavoro, crede in quello che fa e questa convinzione si trasmette a chi ascolta.
Perché alla fine, la musica che tocca davvero le persone non è quella costruita per piacere, ma quella che nasce da una necessità espressiva.
Perché le etichette dovrebbero volere artisti, non prodotti
Le case discografiche che capiscono questa differenza fanno investimenti migliori.
Un artista che crede nel proprio progetto è un investimento solido.
Non è solo una voce che esegue. È qualcuno che può sostenere una carriera, costruire un pubblico fedele, crescere nel tempo.
Quando l'artista è stato messo al centro del processo produttivo, quando ogni brano riflette davvero la sua identità, succedono cose concrete e misurabili.
Prima di tutto, la performance dal vivo funziona.
L'artista sale sul palco e trasmette verità, passione, credibilità.
Il pubblico lo sente e si crea quella connessione che trasforma gli ascoltatori in fan. Fan veri, non follower che svaniscono al prossimo trend.
Poi c'è la longevità.
Un successo costruito sull'autenticità dell'artista genera una carriera, non un fuoco di paglia.
Gli artisti che hanno qualcosa da dire continuano ad averlo anche dopo il primo disco. Evolvono, crescono, mantengono rilevanza.
E questo si traduce in numeri.
Non parlo solo di stream della prima settimana. Parlo di biglietti venduti nei tour, di pubblico che cresce concerto dopo concerto, di catalogo che continua a generare valore nel tempo.
Le etichette più lungimiranti lo sanno: investire su un artista vero significa costruire un asset che cresce.
Investire su un prodotto confezionato significa inseguire l'algoritmo del momento, con risultati che durano una stagione.
La differenza sta tutta qui: vuoi un successo veloce che svanisce o una carriera che lascia il segno?
Io scelgo sempre la seconda strada. E i risultati mi danno ragione.
Una scelta di campo
Personalmente, continuerò sempre a lavorare così, perché è l'unico modo per fare musica che vale la pena ascoltare.
Ogni volta che un artista entra nel mio studio, ho chiara la responsabilità che ho.
Sto dando forma a qualcosa che porterà il suo nome, che dovrà rappresentarlo nel mondo, che diventerà parte della sua storia artistica.
Per questo l'artista resta sempre il fine. Mai il mezzo.
È una scelta che richiede più tempo, più energia, più coinvolgimento.
Significa dire no a progetti che potrebbero essere redditizi ma che tradirebbero questa filosofia.
Significa mettersi al servizio della visione dell'artista, anche quando sarebbe più semplice seguire la formula del momento.
Ma è anche la scelta che genera la musica in cui credo.
Quella che l'artista può portare sul palco emozionando il pubblico.
In un mercato che spinge verso l'omologazione, scelgo la strada opposta.
Perché la musica che cambia le cose non nasce mai dal compromesso.
Nasce quando dai all'artista lo spazio per essere se stesso.
Ricapitolando
L'industria musicale continuerà a evolversi. Gli algoritmi diventeranno sempre più sofisticati. Le piattaforme cambieranno. I trend passeranno.
Ma una cosa resterà costante: la differenza tra musica che intrattiene e musica che è il viatico per il divino.
La scelta di mettere l'artista al centro è una visione per il futuro.
Questo è il mio approccio. Questo è quello in cui credo.
E questo è quello che offro a ogni artista con cui scelgo di lavorare.





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